Seimila potenti guidano l'economia globale. Poliglotti, di ogni razza e
quasi tutti uomini
Una loro sede fissa è
Davos, in Svizzera, diventata ormai un evento mediatico globale delle
élite internazionali: invasa dai giornalisti, è una passerella senza
segreti che ospita ogni anno un’avanguardia di membri (rotanti) della «superclass».
L’élite dell’élite, però, ama ritrovarsi nei più esclusivi meeting
annuali itineranti della Trilateral Commission, o nel Bilderberg Group,
dal nome dell’Hotel de Bilderberg, in Olanda, dove si tenne la prima
riunione di auto-eletti nel 1954. Da allora il Bilderberg funziona solo
ad inviti, e non ammette reporter che raccontano, semmai solo qualche
super-giornalista che ha superato l’esame d’ammissione al club: per
esempio il neo-conservatore William Kristol e il liberal Thomas L.
Friedman, entrambi commentatori del New York Times.
La individuazione di una «superclass» che si è installata in cima al
mondo è il parto di un ex sottosegretario di Bill Clinton per le
politiche commerciali internazionali, David Rothkopf. Il suo
libro-Manifesto, titolato appunto «Superclass», è stato appena tradotto
anche in Italia da Mondadori. Il termine ammicca alla teoria marxista
delle classi, ma in una rivisitazione che punta al riscatto dei
diseredati, ai poveri del mondo che non avevano posto nel verbo marxiano
dell’Ottocento, concentrato sull’Europa industrializzata: più in basso
del Lumpenproletariat, ladri e prostitute assimilati ai capitalisti nel
reprimere gli operai, Mark ed Engels non avevano potuto andare. Rothkopf
sì: così, i reietti del globo che emergono dalle analisi della Banca
Mondiale, cioè i tre miliardi di esseri umani che vivono con meno di
2,50 dollari al giorno (dati 2005) diventano la cattiva coscienza della
superclasse internazionale. Che è cosmopolita e poliglotta ma più
omogenea, nelle forme, di quanto le tensioni geopolitiche, e le
differenze di razze e di tassi di sviluppo, potrebbero fa credere.
Secondo dati non di Rothkopf ma della ricerca sui milionari 2007 della
Merrill Lynch-CapGemini, il vento della ricchezza finanziaria spira più
da Est che da Ovest: gli Usa perdono quote di mercato tra i nuovi
Paperoni (gente che ha investimenti in titoli per oltre un milione di
dollari), mentre quelli dei Paesi emergenti sono cresciuti ad un tasso 5
volte più alto degli americani. L’anno scorso, i neo-ricconi sono
balzati del 19% in Brasile, Russia, India e Cina, contro un aumento di
solo il 3,7% negli Usa, che hanno visto ridursi in un anno la
percentuale dal 31% al 29%, a vantaggio delle quattro nazioni
neo-sviluppate salite dal 6% all’8%. Gli europei hanno ora il 31% di
milionari, ma ne vantavano il 36% quattro anni fa.
Se una superclass globale esiste, è insomma ormai soggetta alla mobilità
e alle scalate sociali che da sempre connotano il capitalismo, ora
declinato pure in mandarino e in cirillico. Le materie prime hanno dato
l’avvio alle nuove accumulazioni, ma adesso sta alle economie emerse
saper accomodare le proprie classi dirigenti alla tavola imbandita del
lusso. Termometri sensibili della affluenza del 2000 sono i megayacht e
gli aerei privati. Burgess, azienda di brokeraggio di yacht, visto il
trend attuale di ordini da Russia e India conta di fare entro cinque
anni la metà dei suoi affari nei Paesi emergenti. E per la prima volta
nei suoi 49 anni di storia la Gulfstream, nel 2007, ha avuto più ordini
dall’estero per i suoi jet privati che non dall’America, dove pure sono
cresciuti del 30%. Inevitabilmente, la nuova superclass sconta cadute di
stile, tipiche dei nuovi ricchi: «Non sono abituati ad aspettare»,
racconta Robert Baugniet, portavoce della Gulfstream. «Quando si sentono
dire che il G550 che vogliono comprare gli arriverà nel primo trimestre
del 2013, richiudono stizziti la valigetta piena di dollari e non
capiscono perché devono aspettare tanto». |
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In una imbarazzante promiscuità con la classe vecchio stampo delle élite
navigate, la superclass globalizzata ha fame di simboli e fretta di
mostrarli. Basta guardare chi compra ora i club inglesi di calcio, un
tempo status symbol domestici ed ora giocattoli per sceicchi e
neo-capitalisti putiniani gonfi di petrodollari. Oppure scorrere
l’elenco, zeppo di russi, sudamericani e asiatici, di chi ha preso casa
nelle due Torri della Cnn o nell’ex Plaza Hotel, supercondomini con
vista su Central Park, o nel residence di Soho costruito da Donald
Trump. Ma superricchi e superpotenti sono davvero una stessa razza, la
nuova élite globalizzata dello sfruttamento? L’anagrafe che Rothkopf ha
ricostruito in una lezione recente tenuta nel Middlebury College in
Vermont risponde di sì: «Prendiamo le maggiori 2000 corporation del
mondo, che impiegano 70 milioni di persone ovunque. Se consideriamo
l’indotto che ruota attorno ad ognuna - per esempio la Procter&Gamble ha
30 mila ditte fornitrici - vuol dire che mezzo miliardo di persone
dipende dalle decisioni di quei 2000 amministratori delegati. Essendo
società quotate, gli azionisti hanno il loro peso: ma gli scambi, in
realtà, sono opera dei 10 mila hedge fund, di cui 300 gestiscono l’80%
delle transazioni, e 100 il 60%».
Gli executives dei fondi e delle banche maggiori, dunque, entrano
anch’essi di diritto nel club, che a conti fatti raccoglie 6 mila membri
contando pure politici, alti ranghi militari, capi delle religioni. Un
potere concentrato, schiavo della globalizzazione, prono al mercato e
sordo alla voce degli esclusi: Rothkopf vuole fare la rivoluzione, ma
dove sono i proletari? Lui indica nelle donne la maggioranza più
sottorappresentata, poiché il 94,7% dei 6000 della superclass sono
maschi. Sarà la Palin il Lenin del 2000?
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