Quella zuccherosa
nostalgia per il sociale che domina la Rete. Anticipiamo
stralci del saggio del teorico dei media pubblicato
nell'ultimo numero di «Lettera internazionale» Un
immaginario attivismo di fronte a un emporio adibito al
consumo vorace di informazioni Il web è presentato come
un medium per rivoluzioni e rivolte condotte a colpi di
«mi piace».
Il concetto «social media», che descrive un insieme confuso
di siti web come Facebook, Digg, YouTube, Twitter e
Wikipedia, non è un progetto nostalgico volto a rilanciare
il potenziale, un tempo pericoloso, del «sociale», inteso
come una folla inferocita che richiede la fine della
diseguaglianza economica. Piuttosto, il sociale è riportato
in vita come simulacro della sua stessa capacità di creare
relazioni sociali significative e durature. Vagando tra le
reti globali virtuali, ci sembra di essere sempre meno
legati ai nostri ruoli all'interno della comunità
tradizionale, come la famiglia, la chiesa, il quartiere.
Soggetti storici, una volta definiti come cittadini o membri
di una classe con determinati diritti, sono stati
trasformati in attori dinamici chiamati «utenti», clienti
che si lamentano, e prosumer. Ciò che conta - per esempio
nella politica e nel mondo degli affari - sono i «fatti
sociali» così come si presentano attraverso l'analisi della
rete e le corrispondenti visualizzazioni dei dati. La parte
istituzionale della vita è un altro discorso, un regno che
viene rapidamente lasciato alle spalle. Si è tentati di
rimanere positivi e di fare una sintesi, proseguendo lungo
questo percorso, tra le strutture di potere formalizzate
all'interno delle istituzioni e la crescente influenza delle
reti informali. Il sociale, che era un tempo il collante
utilizzato come rimedio al danno storico, può rapidamente
trasformarsi in materiale instabile, esplosivo.
Freddo e intimo
In Questo non è un manifesto (Feltrinelli), Michael
Hardt e Antonio Negri evitano di discutere la dimensione
sociale più ampia della comunità, della coesione e della
società. Parlano di una schiavitù inconsapevole: «Accade a
volte che le persone lottino per la propria condizione di
schiavitù come se fosse la salvezza». I due teorici sono
interessati al diritto individuale nei «social media»,
piuttosto che al sociale in generale. «È dunque possibile
che nella comunicazione ed espressione volontaria, nei blog,
nella ricerca sul web e nell'uso dei social media, le
persone contribuiscano a fare crescere invece di contrastare
le forze repressive?» Per noi, il lavoro e il tempo libero
mediatizzati non sono più separabili. Ma che cosa dire
dell'aspetto positivo dell'essere collegati agli altri?
Hardt e Negri fanno l'errore di ridurre il social networking
a una questione di medium, come se Internet e gli smartphone
fossero usati solo per cercare e produrre informazioni. Per
quanto riguarda il ruolo della comunicazione, concludono che
«niente può sostituire la vicinanza fisica e la
comunicazione corporea che è la base dell'intelligenza
politica collettiva e del- l'azione».
In questo senso, la vera natura della vita sociale online
resta fuori campo, e non viene quindi esaminata. L'incontro
tra il sociale e i media non deve essere venduto come una
sintesi in senso hegeliano, come un'evoluzione storico-
mondiale; tuttavia, la forte seppur astratta concentrazione
di attività sociale sulle piattaforme network di oggi è
qualcosa che ha bisogno di essere teorizzato.
L'appello di Hardt e Negri al rifiuto della mediazione deve
essere superato. Abbiamo bisogno di «costruire nuove verità
che possono essere create unicamente da singolarità
comunicanti in network e nello stare insieme». Abbiamo
invece bisogno sia di lavorare in rete che di piantare le
tende. Nella loro versione del sociale, «ci muoviamo in
sciami come insetti» e agiamo come «una decentralizzata
moltitudine di singolarità che comunica orizzontalmente». In
questa prospettiva, le strutture di potere e le frizioni che
emergono da questa situazione non sono ancora state
affrontate. |
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Quello che dobbiamo fare invece è
prendere il processo di socializzazione al valore nominale
ed evitare di perderci in interpretazioni politiche
benpensanti (come ad esempio le «rivoluzioni su Facebook»
della Primavera araba e dei movimenti delle piazze). I
meccanismi dei «social media» sono sottili, informali e
indiretti. Ma è possibile concepire la svolta sociale nei
nuovi media come qualcosa di freddo e intimo allo stesso
tempo, così come dice la sociologa israeliana Eva Illouz nel
suo libro Intimità fredde (Feltrinelli)?
La letteratura dell'industria dei media e dell'information
technology evita di rispondere a questa domanda. Virtù come
l'accessibilità e la fruibilità non spiegano che cosa le
persone stiano cercando «là fuori». Limiti analoghi si
ritrovano nel discorso sulla fiducia, che cerca di gettare
un ponte tra la sfera informale e la sfera giuridica delle
norme e dei regolamenti. Il sociale non è semplicemente la
consapevolezza (digitale) dell'altro, anche se l'importanza
del «contatto diretto» non va sottovalutata. Deve esserci
un'interazione effettiva, reale, esistente. Questa è la
differenza principale tra i vecchi media radiotelevisivi e
il modello attuale dei «social network».
Nel contesto online, il sociale richiede infatti il nostro
coinvolgimento costante, sotto forma di click. Abbiamo però
bisogno di fare il link con il reale al di fuori dello
schermo. Le macchine non potranno effettuare il collegamento
vitale per noi, a prescindere da quanto avremo delegato
loro. Non basta incrementare il nostro capitale sociale
esistente. Ciò che i social media possono fare è espandere
algoritmicamente la nostra portata, o almeno, è ciò che
promettono.
Il «genio maligno del sociale» non ha dunque altro modo di
esprimere se stesso se non tornando nelle strade e nelle
piazze, guidato e assistito dalla moltitudine di punti di
vista prodotti da smartphone «cinguettanti» e da fotocamere
digitali. Così come Jean Baudrillard considerava l'esito dei
sondaggi di opinione come una sottile vendetta della gente
comune contro il sistema politico-mediatico, allo stesso
modo dovremmo mettere in discussione la verità oggettiva dei
cosiddetti big data provenienti da Google, Twitter e
Facebook. La maggior parte del traffico sui «social media»
proviene da milioni di computer che comunicano tra loro.
Considerare un 10% di partecipazione attiva è già dire
tanto, visto che gli utenti sono assistiti da un esercito di
diligenti e laboriosi automatismi del software. Il resto
degli account è infatti inattivo.
La crisi del «punto-com»
Il sistema di «social media» non è tuttavia più in
grado di «immergerci in uno stato di stupore», come diceva
Baudrillard riguardo all'esperienza dei media, decenni fa.
Ora, piuttosto, il sistema ci mostra la via per avere le
applicazioni più alla moda e altri prodotti che
elegantemente ci fanno dimenticare il sapore della giornata
di ieri. Basta un click, selezionare, e trascinare via la
piattaforma per trovare qualcos'altro che ci distragga. Così
trattiamo i servizi online: ce li lasciamo alle spalle, se
possibile, su hardware abbandonati. In poche settimane,
dimentichiamo l'icona, il segnalibro, o la password. Non è
necessario ribellarsi contro i media del web 2.0,
abbandonandolo mentre protestiamo per via di norme sulla
privacy che riteniamo invadenti; al contrario, possiamo
tranquillamente scartarlo, immaginando che alla fine si
unirà al buon vecchio Html, nelle città fantasma dei passati
anni Novanta.
Ci sono molti dubbi sul fatto che Facebook e Twitter, oggi
piattaforme per milioni di utenti, siano ancora in grado di
generare autentiche esperienze di comunità online. Ciò che
conta sono gli argomenti di tendenza, la nuova piattaforma e
le app più recenti. Un giorno, gli storici di Silicon Valley
diranno che i siti di «social network» nascono dalle ceneri
della crisi del «punto-com», quando un manipolo di
sopravvissuti che operavano dai margini degli alti e bassi
dell'e-commerce ha riconfigurato i concetti ancora operativi
del web 1.0, così da rafforzare il ruolo dell'utente come
produttore di contenuti. Il segreto del web 2.0, che ha
preso il via nel 2003, è la combinazione tra uploads
(gratuiti) di materiale digitale e possibilità di commentare
i contributi di altre persone. L'interattività è sempre
stata costituita da queste due componenti: azione e
reazione.
Come spiega Andrew Keen in Vertigine digitale (Egea
edizioni), il sociale nei social media è prima di tutto un
contenitore vuoto; Keen porta a esempio la solita banalità
secondo cui internet «sta diventando il tessuto connettivo
della vita del XXI». Secondo Keen, il sociale sta diventando
un'onda di marea che spiana tutto ciò che trova lungo il
proprio percorso. Keen avverte che ci ritroveremo in un
futuro anti-sociale, caratterizzato dalla «solitudine di un
uomo isolato in mezzo a una folla connessa». |
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Condannati a condividere
Confinati nelle gabbie di software come Facebook,
Google e i loro cloni, gli utenti sono incoraggia- ti a
ridurre la loro vita sociale alla «condivisione» di
informazioni. Il cittadino che si automediatizza trasmette
costantemente il suo stato d'animo a un gruppo amorfo e
insensibile di «amici». Keen fa parte di un gruppo in
crescita di critici (principalmente) americani che ci
allertano sugli effetti collaterali derivati da un uso
estensivo dei social media. Dai discorsi di Sherry Turkle
sulla solitudine, agli allarmi lanciati da Nicholas Carr
sulla perdita di brain power e di capacità di
concentrazione, alla critica di Evgeny Morozov del mondo
utopico delle Ong, fino alla preoccupazione di Jaron Lanier
per la perdita di creatività, ciò che unisce questi
commentatori è che tutti evitano di dire quello che il
sociale potrebbe essere in alternativa, se non fosse
definito da Facebook e Twitter. Il problema qui è la natura
dirompente del sociale, che si presenta come una rivolta
contro un ordine sconosciuto e indesiderato: vago,
populista, radical-islamico, guidato da memi buoni a nulla.
L'Altro come opportunità, come canale, oppure come ostacolo?
A voi la scelta. Non è mai stato così facile
«auto-quantificare» i contorni personali di un individuo.
Seguiamo le nostre statistiche sul blog e sulle nostre
menzioni di Twitter, controlliamo gli amici degli amici su
Facebook, o andiamo su eBay per comprare un paio di
centinaia di «amici» che poi possano mettere il loro «mi
piace» sulle le nostre ultime foto e diffondere il nostro
ultimo look. Secondo Dave Winer, il futuro dell'informazione
sarà come «creare un fiume, aggregando i feed dei blogger
che ammiri di più e le fonti delle notizie che leggono.
Condividere le tue fonti con i tuoi lettori, nella
consapevolezza che quasi nessuno è solo fonte o solo
lettore. Mescolare il tutto. Fare una zuppa di idee e
assaggiarla spesso. Essere connessi con tutti coloro che
sono importanti per te, il più velocemente possibile, nella
maniera più automatica possibile, premere al massimo
l'acceleratore e togliere il piede dal freno». È così che i
programmatori oggi incollano tutto a un codice. Collegare
persone a dati, oggetti a persone. Questo è il sociale,
oggi. |
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